“È stato eretto in una notte, die Berliner Mauer, il 13 agosto del 1961, ha diviso una città per 30 anni, e in una notte è stato abbattuto, sotto i colpi di una popolazione che cercava il riscatto dall’oppressione della guerra fredda e dalla vergogna della guerra mondiale.
È eccezionale notare come una città che ha vissuto ma anche bramato la divisione, che è stata distrutta e ha distrutto, ora mostri una volontà quasi febbricitante di ricostruire.
Berlino è un cantiere.

Non vi è nulla da aggiungere, questa è forse l’immagine più fedele ed evocativa che la capitale tedesca offre ai suoi visitatori. I quartieri ospitano palazzine moderne, edifici da ristrutturare, da rivalutare, riqualificare, ricostruire. E se si incontrano strutture fatiscenti si può star certi che è già stato depositato in comune un progetto di riconversione. La ricostruzione è efficiente e sistematica, ma soprattutto è il frutto maturo della società civile berlinese, che mostra volontà attiva di rinascita e non passiva accettazione, si fa portatrice di un’istanza di rinnovamento e di profonda integrazione.

Abbiamo avuto il piacere, se non il privilegio, di conoscere una delle realtà di integrazione e ricostruzione più dinamiche ed avanguardiste di Berlino: House of One. Il progetto non parte dalle istituzioni civili o religiose, ma da berlinesi comuni e consiste nella costruzione di un centro di aggregazione e integrazione composto strutturalmente da una chiesa, una moschea e una sinagoga, collegate da una sala comune. L’edificio pianterà le sue radici sulle macerie della chiesa di San Pietro, abbattuta dai bombardamenti, e rappresenterà la prima casa di preghiera al mondo per le tre religioni monoteiste, ma soprattutto sarà il cuore pulsante del visionario sogno di pace dei berlinesi. La Casa di Uno, di una sola umanità, rinata dalle macerie della guerra e dell’esclusione, che avevano proliferato anche tra le mura della casa di Dio.

Camminando per la città si percepisce molto più dell’esigenza di preservare la memoria, vi è lo slancio dell’innovazione e della modernizzazione: allora le strutture storiche e di valore civile, sopravvissute alle guerre, sono avvolte in complessi pseudo-moderni che le preservano e le onorano.
Ne è emblema la Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, distrutta dai bombardamenti inglesi del ’43 e del ’45, accolta tra le braccia di una chiesa commemorativa moderna, con una struttura a nido d’ape in cemento e coperta da inserti di vetro colorato con cui ora costituisce un complesso architettonico unico nel suo genere. O la Cappella della Conciliazione, le cui mura sono costituite da una pasta argillosa mista alle macerie della chiesa precedente, che era posta nella famosa striscia della morte, irraggiungibile per la comunità ed ora casa della memoria per le vittime del muro.
La Cappella della Conciliazione si nutre tutti i giorni dell’impegno dei laici e dei religiosi della comunità, che alimentano la memoria individuale delle donne e degli uomini che sono caduti sotto i colpi delle dinamiche di terrore e violenza che hanno lacerato Berlino. Alla memoria massificata della storia dei Grandi, di fronte al muro, Berlino oppone una memoria fatta di volti e nomi, una memoria che privilegia la dignità umana, per cui ogni vittima è degna d’essere ricordata, al di là della vita morale o della semplicità delle biografie.

Questo stile di memoria civile è uno dei regali che portiamo a casa da Berlino e a cui affidiamo la nostra storia di rinascita e il nostro impegno civile di cittadini del mondo. Talvolta però ci siamo trovati di fronte a una frenesia edilizia decisamente ridondante: quando a pochi metri dal muro colorato della East Side Gallery, uno dei frammenti più intatti e carichi di valore civile che la storia ci ha consegnato, si erge un grattacielo di vetro e acciaio: il Living Levels, eretto nel 2013, che, non solo ne deturpa la vista, ma viola prepotentemente il luogo sacro della memoria civile. Il palazzo non è una struttura abusiva o fatiscente, ma la sua presenza inappropriata sembra mancare di rispetto alle vittime delle logiche di chiusura che hanno eretto il muro, alle lacrime di chi è rimasto, all’impegno di tutti coloro che vi si recano ancora, per non dimenticare.
Alla fine nasce la domanda ingenua e genuina dell’infante: “Perché?”
Perché dopo quel 9 novembre, in cui il mondo con il fiato sospeso ha avuto l’occasione di dare una svolta alla storia dell’uomo, oggi ci mostriamo ancora incapaci di essere costruttori di ponti. In quell’89, il mondo, con Berlino in avanscoperta, ha avuto l’occasione, nell’accezione greca di grazia, di rinascere e, finalmente libero, perché memore, di generare una nuova umanità. Una nuova storia, libera dalle contraddizioni del passato, dalla violenza disumana della volontà di sopraffazione, dai nazionalismi aggressivi, dalle discriminazioni, dalle xenofobie. Allora cosa è andato storto? Un’eredità sociale fallimentare? Un’ostinata chiusura di matrice geneticamente umana? O il velo della dimenticanza?”

Irene